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Strumenti di tutela


La Regione Piemonte, con la legge n. 4/21016 ha approntato un sistema complessivo di prevenzione e di contrasto nella violenza alle donne, integrando in un'unica legge quadro i precedenti interventi legislativi in materia che hanno preso forma, rispettivamente, con la legge regionale n. 11/2008 e la successiva legge regionale n. 16/2009.

La Regione Piemonte, oltre a dotarsi di una normativa quadro, ha, in materia aperto la strada con un effetto per così dire di anticipazione rispetto ai contenuti della Convenzione di Istambul sulla protezione delle donne, adottata nel 2011 – ratificata dall’Italia con legge n. 77/2013 ed in vigore dal 01 Agosto 2014.


Il fenomeno dell’incidenza della violenza domestica nelle relazioni di famiglia è particolarmente diffuso e involge nuclei familiari di differente condizione sociale ed economica e si configura come uno di quelli maggiormente difficili da indagare in quanto coperto da forme di pudore e di riservatezza.


Sia l’ordinamento giuridico dello Stato, sia quello delle Regioni hanno preso progressivamente atto della rilevanza della violenza di genere, intendendo con tale definizione, un insieme di comportamenti di violenza fisica, morale, psicologica esercitata da un soggetto nei confronti di un altro soggetto (generalmente di genere diverso), prevalentemente nei confronti di una donna o di un minore. Le accezioni più comuni attraverso le quali può manifestarsi il fenomeno possono essere ricondotte al mobbing, alla violenza morale, allo stupro ed al femminicidio.


Una prima risposta a tale fenomeno è costituita dalla legge sulla violenza nelle relazioni familiari[1] che si pone come strumento finalizzato a reprimere le condotte antigiuridiche che espongono a rischio l’integrità fisica o morale del coniuge o di altro convivente. Il legislatore si è posto l’obiettivo di intervenire in tutte quelle situazioni di grave pregiudizio dell’integrità fisica o morale oppure della libertà di un componente qualsiasi del nucleo familiare causata da un altro componente della famiglia, legittima o naturale che sia.


Le disposizioni della legge 154 prevedono una duplice tipologia di interventi operanti sia in ambito penale sia in ambito civile.


Le misure penali, introdotte dall'art. 1, comma 2, sono contenute negli artt. 282 bis e 291, comma 2 bis, c.p.p.. L’art. 291, comma 2 bis c.p.p., prevede che, nel corso delle indagini preliminari o del dibattimento, il pubblico ministero può chiedere al giudice incaricato “in caso di necessità o di urgenza” l’adozione delle misure patrimoniali provvisorie di cui all’art. 282 bis c.p.p.. Il giudice, pertanto, ai sensi dell’art. 282 bis c.p.p., potrà prescrivere all’imputato: a) di lasciare subito la casa familiare o di non farvi ritorno senza autorizzazione giudiziaria per un certo periodo di tempo (sei mesi); b) di non avvicinarsi a luoghi determinati frequentati dalla famiglia; c) di pagare un assegno periodico in favore delle persone conviventi “che per effetto del provvedimento rimangano prive di mezzi adeguati”, eventualmente con obbligo di versamento diretto al datore di lavoro.


Il comma 4 precisa poi che l'ordine di pagamento ha efficacia sino a che permane la misura dell'allontanamento disposto dal giudice, stabilendo così una connessione causale e funzionale fra le due previsioni. L'ordine di pagamento viene altresì meno quando sopravvenga l'ordinanza di cui al 708 c.c. con la quale il Presidente del Tribunale in sede di separazione emette i provvedimenti urgenti nell'interesse dei coniugi.


La misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare viene applicata non solo quando si proceda per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni ma anche nei casi in cui si proceda per specifiche categorie di delitti, a prescindere dalla considerazione dell’entità della pena prevista per la loro commissione dalla legge.


La legge 154, nella prospettiva di repressione degli abusi familiari, ha introdotto nel codice di procedura penale una specifica misura cautelare di tipo coercitivo che nella previsione della misura principale e di quella accessoria sembra aver stigmatizzato una prassi già esistente. Ed infatti, in passato, alle esigenze sottese alla nuova misura si faceva fronte ricorrendo alle misure coercitive del divieto e dell'obbligo di dimora di cui all'art. 283 del codice di procedura penale.


Di maggior rilievo appaiono le innovazioni introdotte dalla legge 154 all’interno del codice civile e in quello di procedura civile: è infatti previsto che il giudice civile possa adottare misure cautelari provvisorie a tutela delle vittime di violenze familiari.


L’art. 2 della legge 154/2001 ha introdotto, nel libro I del Codice Civile, il Titolo IX-bis rubricato “Ordini di protezione contro gli abusi familiari” e contenente i nuovi artt. 342-bis e 342-ter. Le nuove norme prevedono che qualora la condotta del coniuge o di altro convivente sia gravemente pregiudizievole all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice ordinario, su istanza di parte, qualora il fatto non costituisce reato perseguibile d’ufficio, con decreto può: ordinare la cessazione della condotta antigiuridica; disporre l’allontanamento dalla casa coniugale del coniuge o convivente che abbiano tenuto le condotte lesive, prescrivendo di non avvicinarsi ai luoghi frequentati dall’istante; disporre l’intervento dei servizi sociali o di enti privati che abbiano finalità statutarie adatte allo scopo; disporre un’ingiunzione di mantenimento, mediante corresponsione periodica di una somma di denaro, in favore dei componenti del nucleo familiare che rimangano sprovvisti di mezzi adeguati.


La norma individua quindi una molteplicità di espressioni della violenza familiare (fisica, morale, psicologica, economica, sessuale). Ai fini dell’adozione delle misure di cui all’art. 342 ter c.c. il giudice dovrà, quindi, accertare in via preliminare se la condotta pregiudizievole abbia comportato la lesione di un diritto della personalità, della salute, dell’onore, della reputazione o della libertà personale, valutando, altresì, la gravità del pregiudizio in relazione sia alla gravità e pericolosità della condotta tenuta sia dell’eventuale comportamento reiterato.


L’ordine di cessazione della condotta antigiuridica è il contenuto minimo e necessario degli ordini di protezione; tutte le altre misure sono soltanto eventuali. La misura patrimoniale è condizionata allo stato di indigenza economica conseguente all’estromissione dell’autore della condotta antigiuridica dall’abitazione familiare.


Possono essere soggetti attivi e passivi della condotta pregiudizievole: il coniuge o il convivente oppure, “altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge e dal convivente”. Sulla base di tale ultima statuizione, quindi, è possibile considerare quale soggetto attivo o passivo della condotta lesiva anche il minore.


Oltre alla durata delle misure in esame (che non può essere superiore a sei mesi) il giudice stabilisce, altresì, le modalità di attuazione delle stesse e, ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all'esecuzione, provvede con decreto a emanare i provvedimenti più opportuni per l'attuazione, ivi compreso l'ausilio della forza pubblica e dell'ufficiale sanitario.


Il giudice cui, a seguito di designazione del Presidente del Tribunale, è affidata la trattazione del ricorso, sente le parti e procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul patrimonio personale e comune delle parti, e provvedendo, infine, con decreto motivato immediatamente esecutivo.


Nei casi di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare immediatamente l'ordine di protezione inaudita altera parte fissando l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni ed assegnando all'istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. All'udienza il giudice può confermare, modificare o revocare l'ordine di protezione.


Contro il decreto con cui il giudice adotta l'ordine di protezione o rigetta il ricorso, ai sensi del secondo comma, ovvero conferma, modifica o revoca l'ordine di protezione precedentemente adottato è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal secondo comma dell'articolo 739 c.p.c..Il reclamo non sospende l'esecutività dell'ordine di protezione e sullo stesso provvede il tribunale in camera di consiglio, in composizione collegiale, sentite le parti, con decreto motivato non impugnabile.


L'art. 8 della legge n. 154/2001 prevede che gli ordini di protezione possano essere assunti anche nel corso dei procedimenti di separazione o di divorzio. Pertanto, al giudice istruttore, durante il giudizio di separazione o divorzio, potrà essere richiesta l'adozione di un ordine di protezione. L’art. 6 della legge 154 prevede infine l’applicabilità di una sanzione penale per chiunque eluda l'ordine di protezione previsto dall'articolo 342 ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.


 Con la legge n. 199 del 15 Ottobre 2013 sono state introdotte nuove misure sanzionatorie ai fini del contrasto alla violenza di genere[2]. La legge, di conversione del d.l. n. 93/2013 con il quale erano state introdotte numerose modifiche al Codice Penale in materia, tra le altre, di atti persecutori. il decreto legge aveva esteso l’aggravante speciale prevista dal secondo comma dell’art. 572 C.p. per il caso che il delitto di maltrattamenti in famiglia venga consumato ai danni di minori infraquattordicenni anche all’ipotesi in cui il reato sia commesso alla presenza di un minore di anni diciotto, intendendo in tal modo attribuire specifico rilievo giuridico alla c.d. “violenza assistita”, intesa come il complesso di ricadute di tipo comportamentale, psicologico, fisico, sociale e cognitivo, nel breve e lungo termine, sui minori costretti ad assistere ad episodi di violenza. La legge di conversione ha abrogato la novella ed ha configurato una nuova aggravante comune – collocata nell’inedito n. 11 quinquies dell’art. 61 c.p. – per il caso che i delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale, nonché il delitto di maltrattamenti vengano commessi in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza.


La legge di conversione è poi autonomamente intervenuta anche sull’aggravante di cui al già citato n. 5 dell’art. 609 ter c.p., innalzando la soglia di età della vittima della violenza sessuale dell’ascendente, del genitore o del tutore da sedici a diciotto anni, nonché sulla disposizione di cui al successivo art. 609 decies, estendendo l’obbligo di comunicazione al Tribunale per i minorenni anche nell’ipotesi in cui si procede per i reati di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori commessi in danno di minori o da un genitore di un minore ai danni dell’altro genitore. Con riguardo al reato di atti persecutori la legge di conversione ha superato le perplessità che aveva generato l’originaria formulazione del secondo comma dell’art. 612 bis c.p. Come noto, il d.l. n. 11/2009 (conv. in l. n. 39/2009) aveva infatti configurato in tale comma, come circostanza aggravante del reato, il fatto che lo stesso venisse commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato ovvero dall’ex partner della vittima. 


Dubbi aveva suscitato la decisione di limitarne l’operatività esclusivamente alle specifiche situazioni nominate, escludendo la rilevanza aggravante dello stalking nei confronti del coniuge separato solo di fatto e di quello compiuto in costanza di rapporto affettivo. Ora la legge di conversione ha definitivamente recepito le osservazioni critiche da più parti avanzate ed ha stabilito che l’aggravante degli atti persecutori in oggetto si applica anche nel caso in cui il reato venga commesso in costanza di relazione affettiva. Una parziale retromarcia ha operato invece il legislatore sulla scelta relativa alla irrevocabilità della querela. Mentre il legislatore del 2009 aveva disposto al quarto comma dell’art. 612 bis che il reato fosse procedibile a querela, estendendo però il termine per la sua presentazione fino a sei mesi, così come previsto per i reati sessuali dall’art. 609 septies c.p, ora invece lo stesso legislatore aveva invece deciso di non riproporre anche la clausola di irrevocabilità della querela prevista dal terzo comma della disposizione da ultima citata.


Circostanza che aveva suscitato più di una critica in ragione dei rischi cui poteva essere esposta la vittima del reato, possibile obiettivo di ulteriori minacce e violenze finalizzate ad ottenere, per l’appunto, il ritiro della querela. Critiche che il decreto aveva per l’appunto inteso recepire, aggiungendo nel quarto comma dell’art. 612 bis la menzionata clausola di irrevocabilità. Scelta che però ha avuto vita breve, giacchè la legge di conversione è nuovamente tornata sulla disposizione citata, ripristinando la revocabilità della querela, salvo che nel caso in cui il reato sia stato realizzato «mediante minacce reiterate nei modi di cui all'articolo 612, secondo comma, ma ha posto come condizione che la remissione sia esclusivamente processuale, eccependo dunque al secondo comma dell’art. 152 c.p., per il quale la remissione può invece essere anche extraprocessuale.


Questi interventi legislativi segnano per così dire il punto di approdo di un’evoluzione alla  quale è progressivamente pervenuto il concetto di violenza sessuale nelle relazioni domestiche. Da un modello consolidato di c.d. “debito coniugale” con il quale la giurisprudenza meno recente legittimava la separazione per colpa in capo al coniuge che si sottraeva al proprio dovere di adempiere al debito coniugale nei confronti dell’altro coniuge si è pervenuti ad un orientamento ormai consolidato che ammette l’esistenza della violenza sessuale anche nei rapporti di coppia in quanto imporre al partner dei rapporti sessuali non voluti costituisce una forma di violenza.


Chiarissima, sul punto, la recente pronuncia della Cassazione secondo la quale violenza sessuale è anche quella perpetrata da un coniuge nei confronti dell’altro[3]. Oggi può dunque costituire motivo di addebito della separazione il comportamento del coniuge che imponga all’altro una violenza ovvero un rapporto sessuale non voluto. Il concetto di addebito ai fini della separazione presenta ora una configurazione multiforme che è frutto della recente elaborazione giurisprudenziale: vi è così addebito della separazione al marito che si rifiutava di avere rapporti con la moglie [4], non vi è addebito nei confronti del coniuge che abbandoni la casa coniugale allorchè sia dimostrata l’assenza di qualsiasi affettività all’interno di essa. Si può ascrivere a questo insieme di pronunce anche la sentenza della Suprema Corte in tema di configurazione del c.d. “illecito endofamiliare”[5] che è ravvisabile nel comportamento di chi non abbia reso noto alla futura moglie una situazione di impotenza del marito, con conseguente risarcibilità dei relativi danni.


La violenza domestica può anche incidere sui figli dando luogo ad un quadro completamente differente. il minore è un soggetto debole che può essere oggetto di violenza oppure può assistere ad una violenza (ad esempio del padre nei confronti della madre). Il quadro normativo giustificava in passato l’utilizzo di particolari mezzi di correzione nei confronti del figlio minore sulla scorta del riconoscimento a favore del padre dello ius corrigendi. Un primo passo, finalizzato a smantellare questo contesto di preminenza, si ha con la riforma del diritto di famiglia nel 1975 allorchè il matrimonio viene basato sulla parità morale e giuridica dei coniugi, elidendo così le basi di quel ruolo di pater familias che era riconosciuto al marito dall’ordinamento e prevedendo che i figli debbano essere educati seguendo le loro inclinazioni.


Per contro, la riforma della filiazione nel 2013[6] oltre ad aver eliminato ogni residua discriminazione rimasta nel nostro ordinamento fra i figli nati nel e fuori dal matrimonio, così garantendo la completa eguaglianza giuridica degli stessi, ha sostituito al concetto di potestà genitoriale quello di responsabilità genitoriale per cui i genitori hanno il dovere di accompagnare il figlio verso la crescita ed il figlio non è più soggetto al potere coercitivo del genitore ma diviene un soggetto autonomo.


La violenza assistita

Della violenza assistita si occupa la Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia con legge n. 77/2013 ed entrata in vigore il 01.08.2014. L’attenzione che la Convenzione di Istanbul presta alla violenza assistita si inquadra nel concetto più generale di violenza. La violenza assistita è definibile come qualsiasi atto di violenza fisica- verbale- sessuale – economica e psichica compiuto su qualsiasi soggetto della famiglia, anche un minore. E’ pertanto violenza assistita quella che si verifica allorchè il minore “vede” il padre che agisce con violenza nei confronti della madre; costituisce violenza assistita anche quella che si verifica quando il minore “sente” il padre che opera violenza sulla madre.


La violenza assistita può anche essere percettiva se il minore percepisce in casa un’atmosfera di paura, un silenzio irreale, oppure se rinviene oggetti rotti in casa. I bambini vittime di violenza domestica soffrono di sensi di colpa (essi pensano di essere la causa di questa violenza del padre nei confronti della madre, oppure essi tendono ad assumere atteggiamenti volutamente compiacenti nei confronti del genitore violento con l’intento di placarne le manifestazioni comportamentali maggiormente virulente –ad esempio rispondendo celermente al telefono od al campanello quando è il padre che telefona a casa o suona alla porta; inoltre i bambini tendono a fare da filtro tra il padre e la madre con l’intento di proteggere la madre al punto da aver paura di uscire di casa per non lasciare sola la madre con il padre violento. La somatizzazione della violenza tende a manifestarsi sui bambini attraverso disturbi nel sonno e nell’alimentazione ma spesso la madre, oggetto della violenza, non ha le energie mentali per occuparsi del figlio che accusa questi disturbi.


Nei casi di separazione per violenza domestica o assistita, in passato è stato difficile far passare il concetto che il marito violento nei confronti della moglie potesse anche essere violento nei confronti dei figli. Progressivamente, tuttavia, soprattutto a seguito della modifica dell’art. 337 quater del Codice Civile che ammette l’affidamento ad un solo genitore se l’affidamento all’altro genitore dovesse confliggere con l’interesse del minore, la giurisprudenza ha aperto la strada all’affido esclusivo[7].


Il rapporto tra conflitto e violenza

Non sempre la presenza di un conflitto è sinonimo di violenza. La violenza può essere non solo fisica ma al contrario, una forma di violenza perpetrata da un coniuge nei confronti dell’altro può essere anche di natura economica come nel caso in cui il coniuge obbligato a corrispondere l’assegno di mantenimento all’altro coniuge ometta di far fronte a tale onere.


Vi può inoltre essere un’elevata conflittualità coniugale che giustifichi l’affidamento esclusivo ad un genitore a tutela del figlio minore esposto alla violenza assistita[8]. La bigenitorialità, ossia il criterio fondamentale per cui il minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione ed assistenza morale da entrambi, di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale è un principio di carattere generale: al punto che ogni volta in cui sia possibile, essa dovrà essere attuata prevedendo l’affidamento condiviso mediante il quale, appunto entrambi i genitori mantengono gli stessi diritti e doveri sui figli, con gli stessi poteri e conseguenti responsabilità. Ma – argomenta il Tribunale di Milano[9] - allorchè l’affidamento condiviso rischia di diventare pregiudizievole per il minore, non essendo i genitori in grado di portare avanti un comune progetto di crescita per il figlio, il Giudice può disporre l’affido esclusivo ad uno di essi.


L’affidamento esclusivo non preclude al genitore non affidatario il diritto di partecipare alle decisioni di maggior rilevanza per l’educazione dei figli con riferimento alla salute, all’istruzione ed all’abitazione ad eccezione di quanto prevede il 3° comma dell’art. 337 C.p.c. con la locuzione “salvo che non sia diversamente stabilito le decisioni di maggior interesse restano comuni”.


E’ proprio sulla base di questo principio che il Tribunale di Milano ha escluso tale concertazione in ordine alle scelte più importanti (salute, educazione, istruzione, residenza abituale), rimettendo al genitore affidatario anche l’esercizio in via esclusiva della responsabilità genitoriale con riguardo alle questioni fondamentali. Ferma restando, ovviamente, la comune titolarità della responsabilità genitoriale: è il caso dell’affidamento rafforzato.


Nell’affrontare la tutela di una donna vittima di violenza domestica, è importante, nel processo civile far comprendere al giudice l’esistenza di questa realtà e che la donna vittima di violenza debba essere capita, attraverso una precisa chiarificazione, nel ricorso, delle modalità attraverso le quali la donna viveva nella famiglia, della sua insicurezza, del fatto che abbia magari dovuto lasciare la casa coniugale per la propria sicurezza, compromettendo così le proprie competenze genitoriali. In questo contesto, assume rilevanza anche il quesito da porre al consulente tecnico d’ufficio: non è sufficiente capire quale genitorialità possa offrire il genitore maltrattato, ma occorre che il c.t.u. verifichi come la violenza abbia inciso sulla psiche dei figli minori, suggerendo quindi specifiche modalità di frequentazione dei figli minori con il genitore autore dei maltrattamenti.


Se, dunque, il difensore del genitore maltrattato può chiedere la decadenza dalla responsabilità genitoriale nei confronti del genitore maltrattante, anche nel quadro della richiesta di separazione, diverso appare il ruolo dell’avvocato del minore vittima di violenza assistita, dovendo tener conto della condizione del minore, dell’esigenza che il minore possa rimanere nella propria famiglia e valutando le forme di sostegno sulle quali egli possa contare, interagendo con i servizi sociali e salvaguardando i legami parentali del minore.


La violenza europea

Il concetto di “violenza europea” integra l’insieme delle disposizioni normative che, nel quadro del diritto europeo codificano e disciplinano le misure di prevenzione, protezione e punizione contro la violenza domestica. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (1950) presenta in sé una serie di principii che sono successivamente stati assunti a base interpretativa da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in numerose proprie pronunce relative alla lesione dei diritti umani fondamentali. Tra questi articoli è dato annoverare l’art. 2 a tutela del diritto alla vita, l’art. 3 in tema di divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, l’art. 8 a tutela della vita familiare e l’art. 4 in tema di divieto di discriminazione. Le pronunce maggiormente significative da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nell’applicazione dei predetti articoli della Convenzione, ha deciso - o sta decidendo – una serie di ricorsi promossi contro gli Stati aderenti alla C.E.D.U. possono così essere individuate:


• sentenza n. 646 del 22.03.2016 contro la Turchia: la ricorrente, cittadina turca, aveva subito violenza dal marito e, nonostante la denuncia delle violenze subite alle autorità turche, solo dopo 9 anni l’autorità giudiziaria condannava coniuge. La ricorrente adiva la Corte convenendo in giudizio la Turchia e lamentando la violazione degli artt. 3 e 4 della C.E.D.U. La Corte condannava la Turchia evidenziando come il mancato intervento dello Stato turco avesse integrato gli estremi di una discriminazione di genere dal momento che il genere femminile era stato penalizzato dall’inerzia delle autorità giudiziarie di quel Paese;


• sentenza del 27.07.2014 contro l’Italia: la ricorrente, cittadina italiana, conviveva con un cittadino kenyota che la aggrediva violentemente; l’uomo veniva condannato e scontava la pena dapprima in carcere e, successivamente, in un centro a 15 km dall’abitazione della donna, pretendendo di mantenere i contatti con la vittima. La ricorrente lamentava le debolezze dell’intervento protettivo dello Stato sulla base della violazione dell’art. 14 della C.E.D.U.. La Corte rigettava il ricorso escludendo la sussistenza della presunta violazione ad affermando che le misure protettive messe in campo dal legislatore italiano apparivano efficaci per punire l’abusante;


 • nel ricorso Talpis/Italia – tuttora pendente: la ricorrente, cittadina moldava, era coniugata con un connazionale violento; dopo aver subito numerose violenze, ella si rivolgeva alle forze dell’ordine le quali dapprima si limitavano ad un richiamo verbale al coniuge e, successivamente, dopo averlo fermato, ne controllavano le sole generalità, senza dare seguito ad ulteriori interventi. Il coniuge rientrato nell’abitazione, colpiva violentemente la moglie, procurandole escoriazioni ed ematomi diffusi accertati in seguito all’accesso al pronto soccorso. A causa dell’indisponibilità di una casa rifugio, la ricorrente continuava a vivere nell’abitazione coniugale finchè nel 2013 dopo essere stata picchiata selvaggiamente dal coniuge, senza alcuna conseguenza legale per quest’ultimo, accadeva l’irreparabile in quanto il marito uccideva il figlio quindicenne che si era frapposto durante l’ennesima aggressione del padre nei confronti della madre. La ricorrente lamentava, evocando in giudizio lo Stato Italiano, la lesione degli artt. 2, 3 , 8 e 14 della C.E.D.U.. Il caso è tuttora pendente ma pare improbabile che la Corte, pur acclarando l’adeguatezza dell’apparato di diritto positivo vigente in Italia, possa rigettare il ricorso ed omettere di condannare lo Stato Italiano, per l’evidente omessa applicazione dei predetti rimedi di diritto positivo.


Si è già richiamata, più sopra, la rilevanza della Convenzione di Istanbul che ha importato innovazioni prevalentemente nel campo del diritto penale. In considerazione della circostanza per cui non molti Stati dell’Unione Europea hanno ratificato la Convenzione, l’Unione Europea sta avviando un processo di adesione e di ratifica della Convenzione al fine di dare attuazione ad un programma sistematico di azioni positive contro la violenza domestica. Preme sottolineare la rilevanza della definizione che la Convenzione dà in ordine alla violenza contro le donne ed alla violenza domestica.


• La violenza contro le donne: è definita come una violazione dei diritti umani e con essa si intendono tutti gli atti di violazione di genere che determinano o sono suscettibili di provocare danno fisico, sessuale, psicologico o economico o una sofferenza alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica o privata .


• La violenza domestica: è definita come l’insieme di quegli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all'interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l'autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima;


• la violenza contro le donne basata sul genere: designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato.


La Convenzione di Istanbul si occupa, nel complesso, di quelle forme di violenza che coinvolgono la donna attraverso il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali, l’aborto forzato e la violenza per ragioni d’onore. Il sistema di azioni positive che la Convenzione individua è articolato su 3 pilastri:


• La prevenzione : individua le radici del fenomeno nelle discriminazioni esistenti contro la donna nella società contemporanea, condannando all’art. 4[10] ogni forma di discriminazione contro le donne.


• La protezione: individua quali beneficiari degli strumenti di protezione le donne ed i bambini che vengono riconosciuti come vittime di violenza domestica o testimoni di violenza domestica nella famiglia. La Convenzione fa obbligo alle Parti contraenti di adottare le misure idonee a proteggere la vittima di violenza ed il tribunali devono abbandonare l’indirizzo di rigettare l’emissione dell’ordine di protezione contro gli abusi familiari nei casi in cui sia venuta meno la convivenza tra i coniugi. Viene dunque adottato l’indirizzo teso a favorire un’applicazione estensiva degli ordini di protezione per mettere in condizioni di sicurezza la vittima di una violenza, favorendo così, ai fini dell’ordinamento italiano, un’interpretazione di natura teleologica dell’art. 342 bis del Codice Civile in materia di ordine di protezione, anche nei casi in cui attualmente sia disconosciuta l’applicazione degli ordini di protezione.


• La punizione: individua l’insieme delle misure repressive sia in ambito civile sia penale. L’art. 29 della Convenzione riconosce il diritto alle vittime di violenza a chiedere il risarcimento in relazione a ciascuna ipotesi di reato prevista dalla Convenzione stessa. La Convenzione individua due tipologie di responsabilità dello Stato che vengono a configurarsi rispetto ad ogni forma di violenza nei confronti delle donne:


responsabilità diretta dello Stato: si configura se lo Stato non adotta le misure di protezione nell’ambito delle proprie competenze; 


responsabilità indiretta dello Stato: comporta l’obbligo per lo Stato di corrispondere il risarcimento a coloro che abbiano subito gravi pregiudizi alla salute qualora non fosse possibile risarcire il danno da altra fonte.


La Direttiva europea n. 36 del 2011 che l’Italia ha recepito con il decreto legislativo 4 marzo 2014 n. 24 introduce misure di prevenzione e repressione della tratta di esseri umani ed a favore della protezione delle vittime. Il recepimento della direttiva, da parte del legislatore italiano, si è limitato all’introduzione di norme tra loro slegate, modificando norme già in vigore nell’ordinamento italiano ma senza creare una disciplina di sistema che realizzasse l’obiettivo perseguito dalla direttiva europea. Questi i punti maggiormente salienti del decreto legislativo di recepimento:

1) in recepimento dell'art. 2 della direttiva europea l'espressa previsione per cui il consenso della vittima allo sfruttamento è irrilevante in presenza di uno dei metodi coercitivi previsti;

2) in recepimento dell'art. 8 della direttiva europea, l'introduzione di una norma che preveda la non punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto come conseguenza diretta di uno degli atti di cui agli artt. 600 e 601 c.p. ;

3) in recepimento dell'art. 11 della direttiva le previsioni relative alla adeguata e completa assistenza alle vittime, sotto il profilo della precocità dell'assistenza stessa (offerta sin dai primi indizi in cui vi sia “ragionevole motivo” di ritenere che l'interessato sia vittima di tratta), della garanzia dell'assistenza e tutela a prescindere dalla collaborazione (norma non presente nel nostro ordinamento come fonte di natura primaria), dell'introduzione di “adeguati meccanismi di rapida identificazione” delle vittime.


Il Regolamento n. 606/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 Giugno 2013, relativo al riconoscimento reciproco delle misure di protezione in materia civile entrato in vigore l’11 Gennaio 2015. Il Regolamento è finalizzato ad assicurare alle vittime di stalking, molestia o violenza di genere che abbiano ottenuto protezione in uno Stato membro il diritto ad usufruire di una protezione equivalente in un altro Stato, senza dover adempiere a particolari formalità.

Il regolamento:

• garantirà che la protezione accordata in uno Stato membro sia mantenuta quando la vittima viaggia o si trasferisce in un altro Stato membro;

• semplificherà la procedura di richiesta di protezione, eliminando tutte le attuali formalità intermedie di tal che una volta emessi da uno stato membro gli strumenti di protezione, infatti, mediante una semplice certificazione essi saranno riconosciuti in tutta l'Ue in modo rapido e immediato;

•prevede l’adozione di un Certificato multilingue standard finalizzato ad assicurare che che la protezione sia riconosciuta ed eseguita in tutta l'UE; il  certificato fornisce tutte le informazioni essenziali sulla persona e sulle misure di protezione ed il suo utilizzo deve mantenere i costi di traduzione al minimo, per far sì che non vi siano costi aggiuntivi per la persona protetta.


Per facilitare l’eventuale adeguamento di una misura di protezione, il certificato:

a)     dovrebbe indicare se l’indirizzo specificato nella misura di protezione corrisponda al luogo di residenza o al luogo di lavoro della persona protetta ovvero a un luogo che essa frequenta regolarmente;

b)    dovrebbe indicare l’area circoscritta (raggio approssimativo a partire dall’indirizzo specifico) a cui si applica l’obbligo imposto dalla misura di protezione alla persona che determina il rischio.

Conformemente al principio di riconoscimento reciproco, il riconoscimento corrisponde alla durata della misura di protezione ma, in ogni caso, tenuto conto della diversità delle misure di protezione in base alle legislazioni degli Stati membri, in particolare riguardo alla loro durata, e considerato che il regolamento normalmente si applicherà in situazioni di emergenza, gli effetti del riconoscimento a norma del regolamento dovrebbero essere limitati, in via eccezionale, a un periodo di dodici mesi dal rilascio del certificato previsto dal regolamento, indipendentemente dall’eventuale maggiore durata della misura di protezione stessa.


Per garantire il rispetto del diritto alla difesa della persona che determina il rischio, qualora la misura di protezione sia stata disposta in contumacia o in base a una procedura che non prevede la precedente comunicazione a tale persona («procedura in assenza di contraddittorio»), il rilascio del certificato dovrebbe essere possibile solo se tale persona abbia avuto la possibilità di difendersi contro la misura di protezione. Tuttavia, per evitare l’elusione e tenendo conto dell’urgenza che caratterizza i casi in cui sono necessarie misure di protezione, non si dovrebbe richiedere che il periodo per far valere i mezzi di difesa sia scaduto prima che possa essere rilasciato un certificato. Il certificato dovrebbe essere rilasciato non appena la misura di protezione è esecutiva nello Stato membro d’origine. In caso di sospensione o revoca della misura di protezione o di revoca del certificato nello Stato membro d’origine, l’autorità competente dello Stato membro richiesto, previa presentazione del pertinente certificato, dovrebbe sospendere o revocare gli effetti del riconoscimento e, ove applicabile, l’esecuzione della misura di protezione.


Il regolamento integra, infine, la direttiva 2012/29/UE, che detta norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato stabilendo che «il fatto che una persona sia oggetto di una misura di protezione disposta in materia civile non osta necessariamente a che essa sia definita “vittima” ai sensi di tale direttiva».


Completata la tutela, dopo l’ordine di protezione europeo in sede penale, il regolamento in materia civile, copre le minacce all'integrità fisica e psichica delle persone, comprese le minacce alla libertà personale, alla sicurezza e all'integrità sessuale e completa la direttiva in materia penale sull'ordine di protezione europeo.  In particolare, la direttiva 2011/99/Ue del Parlamento e Consiglio dell’Unione europea[1] (adottata, in seconda lettura, il 13 dicembre 2011, al termine della procedura di codecisione) è volta ad assicurare il riconoscimento reciproco tra gli Stati membri delle misure di protezione adottate in materia penale per le vittime di reato. Un ordine di protezione europeo può essere emesso solo se nello Stato di emissione è stata precedentemente adottata una misura di protezione che impone alla persona che determina il pericolo uno o più dei seguenti divieti o delle seguenti restrizioni:

a)divieto di frequentare determinate località, determinati luoghi o determinate zone definite in cui la persona protetta risiede o che frequenta;

b)divieto o regolamentazione dei contatti, in qualsiasi forma, con la persona protetta, anche per telefono, posta elettronica o ordinaria, fax o altro;

c)divieto o regolamentazione dell'avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito.

Congiuntamente, il regolamento e la direttiva , i due strumenti copriranno la più ampia costituiranno un sistema integrato di misure di protezione , in materia civile e penale, adottate dagli Stati membri.


[1] La Direttiva avrebbe dovuto essere attuata entro l'11 gennaio 2015 (art. 21 della direttiva medesima); la delega per l'emanazione del decreto legislativo è contenuta nella legge di delegazione europea per l'anno 2013 (legge n. 96/2013). In virtù della proroga prevista dall'art. 31, comma 3, legge n. 234/2012 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea), il termine per l'esercizio della delega scadrà l'11 febbraio 2015. Il Consiglio dei Ministri il 30 settembre 2014, ha presentato uno schema di decreto legislativo recante attuazione della direttiva 2011/99/UE sull'ordine di protezione europeo, al quale, il 9 dicembre 2014, la Commissione Giustizia ha espresso parere favorevole.

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